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Ritorno dall'inferno

di Andrea Saviano« Ovunque tu andrai, sarà di certo un luogo migliore di questo. Un luogo in cui non dovrai avere a che fare con chi assume un ruolo forte solo per celare una personalità debole. L'unica cosa che forse perderai, sarà lo spirito di gruppo. L'essere tutti in una condizione di miseria tale, da non poter esprimere alcun giudizio sui limiti degli altri, perché insieme ai propri costituiscono le debolezze della squadra. Spero solo che ti rammenterai di me, anche quando tutto questo sarà offuscato dalle nebbie del ricordo e assomiglierà più a un brutto incubo da dimenticare che a un pezzo di vita vissuta. Io come te non sono venuto qui per denaro, ma perché credevo in certi ideali quelli in cui credi anche tu. Poco importa a me di chi sia stata la decisione di venire qua e se dietro ci siano stati secondi fini, so solo che io ho deciso di venirci. La politica, amico mio, è una brutta cosa e la democrazia solo un'illusione, questo lo sappiamo bene, ma provarci è necessario. Non vedo più, mi sa che stia giungendo per me la fine. Qui si dividono le nostre strade per sempre, vecchio mio. »

Lo stringevo forte a me, mentre lui farneticando tentava di tenere strette a sé le proprie interiora, sparse un po' ovunque. Intorno a noi, a nascondere la sagoma sventrata del blindato, un denso fumo acre che puzzava di morte.

Non era stato un colpo di mortaio o un bazooka a creare tutto quello sfacelo ma un kamikaze. Un invasato che non reputava la vita un bene prezioso, sia che si trattasse della propria, sia che si trattasse di quella altrui. Lì il problema (ridotto all'osso) era proprio questo, il fatto che nessuno reputasse di alcun valore la vita umana.

Mentre tentavo di trattenere le grida, notai che intorno a noi si stavano levando alte le grida della folla. Decine di persone di corsa si stavano avvicinando per spogliare i cadaveri di ogni loro avere, anche di quegli oggetti di poco pregio che tuttavia avrebbero avuto un importante valore affettivo per i cari.

Reso impotente dagli eventi, fissai gli occhi ormai immobili del mio tenente.

« Hai smesso di soffrire, » gli dissi con fare quasi materno.

Dei colpi di mitragliatore pesante segnalarono l'arrivo dei rinforzi. Sopraggiunti non perché ci fosse in arrivo il nemico, ma per disperdere quel branco di sciacalli.

Potevi sacrificarti per loro, lasciare a chilometri di distanza la tua famiglia, abbandonare gli agi della tua patria per accogliere serenamente le scomodità di quel paese, ma per queste popolazioni non saresti mai stato nulla che un nuovo padrone. Anzi, come soleva dire il mio tenente, « il tirapiedi del nuovo padrone. »

Cosicché la cosa difficile, una volta giunti in questo paese straniero, era stato non cadere nella diffidenza verso tutto e tutti, perché qui anche un ragazzino dall'aria innocente o una donna dall'aspetto aggraziato poteva celare la minaccia di un attentato suicida.

« Sei ferito? Come stai? Lui come sta? »

« Io sto bene, lui credo sia morto. »

Solo allora, fissando il mio braccio teso verso il compagno d'armi. Compresi che in realtà anch'io ero rimasto ferito.

Un frammento di lamiera mi era entrato nell'avambraccio, eppure non provavo alcun dolore.

« Tra un attimo arriveranno i soccorsi, non ti preoccupare, » mi disse con una certa preoccupazione nei miei confronti. Mi guardai, per la prima volta da quando avevo visto le interiora del mio tenente deflagrate all'esterno del suo addome, posi una qualche attenzione al mio corpo.

Molti frammenti di lamiera erano infissi nelle mie carni. Dalla maggior parte delle ferite grondavo sangue e da alcune addirittura zampillava al ritmo del mio battito cardiaco.

Inebetito, guardai gli altri soldati intorno a me con le armi spianate non contro il nemico ma contro la popolazione. Il dolore delle mie fibre lacerate salì rapido e improvviso, come un'onda di piena travolse e sommerse i miei sensi, poi fu di nuovo pace e tranquillità, seppur avvolta nel buio più totale.

Quando riaprii gli occhi, un solo rumore rompeva il più assoluto dei silenzi, il bip ritmico di una qualche strumentazione elettronica di controllo.

Due canaline erano state inserite nel mio naso e altri tubicini erano infilati nel mio corpo o per drenare o per somministrare strane soluzioni.

Intontito come dopo una sbornia, tentai di comprendere se provassi dolore, ma salvo quello dell'anima il corpo non era in grado di trasmettermi un segnale che il cervello potesse tradurre in qualcosa di più chiaro di un vago stato di malessere e disagio. Infatti avvertivo un fastidio più simile a uno stato di spossatezza che a una vera e propria sofferenza.


CONTINUA